Le origini…
Il 2 ottobre 1860 è la data in cui Cavour presentò al Parlamento il disegno di legge che avrebbe garantito l’annessione delle province del Sud al nuovo Regno d’Italia, a seguito del crollo del Regno delle Due Sicilie.
Ma già l’anno successivo “i giudizi di chi avvertiva la difficoltà quotidiana di governare una popolazione ben presto definita “ingovernabile” si arricchirono con il passare del tempo di notazioni che, pur articolandosi maggiormente rispetto alle rappresentazioni iniziali, ne accentuarono gli elementi negativi, ponendo le basi di quello che in breve tempo sarebbe diventato lo stereotipo del meridionale pigro, corrotto e vile del Mezzogiorno “cancrena” d’Italia”.
La questione…antropologica
Da subito quindi, nonostante non si parlasse ancora di una “questione meridionale”, vennero alla luce dei pregiudizi mentali dei settentrionali nei confronti della società contadina del Sud: quindi la rappresentazione del "Mezzogiorno d’Italia", come un blocco unitario d’arretratezza economica e sociale non trova fondamento sul piano storico, ma ha genesi e natura ideologica. In breve tempo la questione meridionale divenne un fenomeno, oltre che politico, anche sociale e antropologico. Brigantaggio, mafia e camorra divennero ben presto delle giustificazioni ad un tale modo di pensare: secondo i settentrionali la causa dell’arretratezza del Sud non doveva essere attribuita a cause storiche, come ad esempio il malgoverno che aveva regnato per tutta la durata del Regno delle Due Sicilie, ma piuttosto al carattere stesso dei cittadini di quelle terre.
Dalla inferiorità razziale, e dalla subalternità della cultura meridionale rispetto a quella settentrionale, prese corpo la teoria e l'esistenza delle "due Italie", conseguenza di "due razze" e "due psicologie". E' la teoria di Alfredo Niceforo che, riprendendo e sviluppando le argomentazioni di Cesare Lombroso e della sua scuola di antropologia criminale, arrivò a scrivere, nel libro “L’Italia barbara contemporanea” del 1899: “La razza maledetta che popola tutta la Sardegna , la Sicilia e il mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità alla prima, dovrebbe essere trattata col ferro e col fuoco”.
La teoria della "razza maledetta" fu contrastata e denunciata dai meridionalisti dell'epoca come la più comoda scorciatoia per dare una spiegazione, non storica ed economica, ma antropologica, al problema delle "due Italie", delle loro distanze sociali, dei loro dislivelli civili.
La questione meridionale
La lettura del Sud in termini di arretratezza ebbe come riferimento il modello economico liberale - nato dalla rivoluzione industriale - che determinò anche una profonda trasformazione dei rapporti sociali, e un’impostazione culturale idealistica: giudicando la storia del Mezzogiorno secondo il parametro della crescita della coscienza civile (giunta a maturazione solo grazie al Risorgimento…) il Meridione d’Italia viene valutato in ragione della sua devianza da quei modelli e viene descritto in termini d’individualismo, di carente spirito civico, di arretratezza tecnologica, di resistenza alla modernizzazione, di corruzione, di clientelismo, utilizzando le dicotomie sviluppo/sottosviluppo e progresso/arretratezza come indicatori del livello raggiunto rispetto a una scala ideale da percorrere.
Fu solo verso i primi del Novecento che si iniziò a riflettere sull’utilità di una politica di governo che permettesse un fiorire del Mezzogiorno.
Dopo la guerra, la mafia acquistò un enorme potere nell'Italia meridionale, particolarmente in Sicilia:
A varie riprese il governo italiano destinò fondi allo sviluppo del Mezzogiorno, creando pure un istituto finanziario chiamato Cassa del Mezzogiorno per gestirne i flussi. La mafia dal canto suo investì i propri proventi in attività legali. Ma tali movimenti finirono, rispettivamente, a dirottare denaro pubblico e a riciclare i proventi di crimini, e non a finanziare imprese produttive.
Nel migliore dei casi gli investimenti statali vennero utilizzati male, e servirono a creare industrie pubbliche sovradimensionate, in aree mal servite dalle infrastrutture, con una sede dirigenziale situata spesso lontano dagli impianti di produzione. Certi gruppi privati furono incitati, tramite sovvenzioni pubbliche, a stabilirsi nel sud, ma tali scelte si rivelarono antieconomiche, e gran parte di questi esperimenti industriali fallirono in breve tempo. Le aziende facevano ricorso a prassi clientelari nelle assunzioni, e non venne mai messa nessuna enfasi sulla produttività o sul valore aggiunto dalle attività imprenditoriali.
Queste pratiche corporative ebbero come conseguenza la profonda alterazione delle leggi di mercato e l'aborto di ogni possibile sviluppo economico delle aree depresse del paese. I capitali privati, italiani come stranieri, evitavano il Mezzogiorno, considerando che ogni investimento effettuato in chiave produttiva fosse destinato alla perdita a causa di tali pratiche. Benché oggigiorno la situazione sia sensibilmente diversa, atteggiamenti clientelari e nepotisti perdurano ancora.
I tentativi di avviare processi di sviluppo furono molti e diversificati ed anche se, nell’arco di tempo che va dagli inizi del secolo scorso alla prima metà del 2000, l’economia meridionale ha registrato importanti e radicali trasformazioni, i risultati non possono essere definiti soddisfacenti. Basti pensare che, dopo circa 60 anni di politiche di intervento al Sud, il reddito pro-capite di ognuna delle regioni meridionali è più basso di quello di ognuna delle regioni centro-settentrionali.
La questione meridionale è questione nazionale
L’impatto della crisi che si è abbattuta sull’intera economia globale, nel Meridione sta producendo effetti catastrofici: considerando la distribuzione territoriale della povertà risulta sempre più evidente il drammatico, e drammaticamente persistente, squilibrio con le diverse aree del Paese. Nelle aree del Sud l’incidenza della povertà relativa continua ad essere più del doppio della media nazionale con quasi il 25% delle famiglie residenti sotto la linea di povertà: nel Mezzogiorno si concentrano tuttora i due terzi delle famiglie povere italiane.
Siamo ormai di fronte, e senza dubbio, ad un Paese spezzato in due: il divario Nord-Sud è la vera emergenza italiana, confermata tra l’altro dai pressanti e regolari inviti della Commissione Europea che, in ogni suo rapporto sulla situazione sociale, indica con insistenza nello “sviluppo del Sud la più grande sfida di lungo termine” con cui è chiamato a confrontarsi il Paese.
La crisi economica da una parte e il federalismo fiscale dall'altra stanno mettendo in ginocchio il territorio meridionale. Nei prossimi anni, quando i decreti attuativi del federalismo fiscale diventeranno realtà, le regioni meridionali dovranno trovare qualcosa come 20 miliardi di euro per coprire i costi del welfare e fare funzionare al minimo la pubblica amministrazione.
Anche i famosi Por, fondi europei per le regioni arretrate, finiranno nel prossimo triennio, e non ci saranno altre risorse aggiuntive. E i giovani del Mezzogiorno che in quest'ultimo decennio sono emigrati in massa nel centro-nord (oltre settecentomila) avranno sempre più difficoltà a farlo: per la prima volta le regioni ricche avranno un serio problema di disoccupazione, che tenteranno di risolvere in parte con un assorbimento nella pubblica amministrazione.
La crisi globale che stiamo attraversando non è una crisi congiunturale: il milione di operai ed impiegati nel settore privato che sono usciti dalla produzione difficilmente ci ritorneranno. I giovani laureati meridionali non saranno più chiamati a colmare i vuoti, non avranno più spazio nel settore pubblico, che ha funzionato da spugna occupazionale. Risultato: il Mezzogiorno si sta trasformando in una gabbia da cui è difficile uscire.
Il problema del Sud non è più un problema di arretratezza economica. È un problema di cultura diffusa, di istituzioni, d'organizzazione sociale, di sistema di valori. Soprattutto è un problema di classi dirigenti locali, le quali hanno da sempre mal governato e che oggi hanno o completamente abdicato al loro ruolo o accettato d'essere parte organica del sistema criminal-clientelare che controlla quel 50% del paese compreso fra il Lazio e Lampedusa.
Troppo spesso quando si parla di Sud l’attenzione si concentra quasi esclusivamente sulle variabili macroeconomiche, ricorrendo a quella lunga serie di dati ormai molto noti relativi al PIL, alla dotazione infrastrutturale, ai depositi bancari. Poco invece, o almeno non abbastanza, si parla del dramma della disoccupazione, del lavoro sommerso, dello sfruttamento e della mancanza di sicurezza.
Una delle determinanti principali della "questione meridionale" è il sistema di tolleranza delle irregolarità che si autoalimenta e determina una selezione avversa nei confronti del merito individuale e del rispetto delle regole. Il fenomeno ha una rilevanza di carattere generale perché alcuni ingredienti della ricetta, che ha prodotto il disastro del sud Italia, sono presenti anche al nord e nel resto dei paesi sviluppati. L’idea di fondo è che si tratti di un processo graduale di progressiva degenerazione in cui il combustibile principale è la tolleranza verso il mancato rispetto delle regole: l’infrazione commessa da un singolo individuo viene tollerata dagli altri perché non riconoscono nella violazione un danno immediato e perché confidano nella possibilità di ricevere altrettanta tolleranza in futuro.
Ma quando la tolleranza si estende da chi alle regole dovrebbe attenersi a chi le regole dovrebbe far rispettare, la regola comune perde qualsiasi significato e qualsiasi potere vincolante sui soggetti che dovrebbero, semplicemente, rispettarla: la maleducazione o la disobbedienza evolvono in illegalità e crimine e l'intero tessuto sociale diventa un incubatore per la criminalità organizzata e per le caste corporative.
“Un’agenda di speranza per il futuro del Mezzogiorno”
Proprio con un invito «al coraggio e alla speranza» si conclude il documento della Cei Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno: la «constatazione del perdurare del problema meridionale» chiama la Chiesa italiana agli «ineludibili doveri della solidarietà sociale e della comunione ecclesiale».
Nel paragrafo 34 dell’enciclica “Caritas in veritate”, Papa Benedetto XVI afferma: “La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente nella storia solo con la propria azione ha indotto l'uomo a far coincidere la felicità e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare “influenze” di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici, sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che promettevano.” Una dichiarazione il cui valore politico è sin troppo evidente: i cardini sui quali poggia sono il principio di solidarietà e di sussidiarietà che offre un aiuto alla persona "attraverso l'autonomia dei corpi intermedi". La sussidiarietà, spiega il Papa, "è l'antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista" ed è adatta ad umanizzare la globalizzazione.
"La fede cristiana - scrive Papa Benedetto XVI - si occupa dello sviluppo non contando su privilegi o su posizioni di potere (...) ma solo su Cristo" evidenziando che "le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale. Sono innanzitutto nella volontà, nel pensiero e ancor più "nella mancanza di fraternità tra gli uomini e i popoli". E riprendendo l'Enciclica "Centesimus Annus", Benedetto XVI indica la "necessità di un sistema a tre soggetti": mercato, Stato e società civile e incoraggia una "civilizzazione dell'economia". Servono "forme economiche solidali". Mercato e politica necessitano "di persone aperte al dono reciproco".
Tali indicazioni offrono numerosi spunti per gli amministratori pubblici, sia a livello nazionale che a livello locale. Ma come si possono declinare i principi fondamentali dell’enciclica “Caritas in Veritate” nel concreto operare di un amministratore pubblico? Una fondamentale risposta a tale interrogativo consiste nell’impostare la propria azione sulla ricerca del bene comune, cioè la realizzazione della missione sociale e civile,propria dell’istituzione pubblica di cui il singolo amministratore, a prescindere dal ruolo e dal livello, fa parte. Infatti, la Caritas in veritate ci ricorda che del perseguimento del bene comune «deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica». Ciò significa, fra l’altro, operare per prevenire o rimuovere disparità e disuguaglianze e, inoltre, combattere la corruzione e l’illegalità.
Nella Chiesa e nella società del Sud ci sono risorse di socialità, cultura, spiritualità, che alimentano la speranza del riscatto oltre «ogni forma di rassegnazione e fatalismo». Un riscatto che prenda forza dall’«umanesimo cristiano», riconosca la «sfida educativa» quale «priorità ineludibile» e abbia nel federalismo solidale uno strumento efficace.
Per passare dall’assistenzialismo al protagonismo bisognerà puntare ad una formazione che oltre a creare professionalità qualificate deve basarsi sui valori della Dottrina sociale della Chiesa: il primato e la centralità della persona, la sussidiarietà base di una autentica libertà e autonomia, la solidarietà base della giustizia sociale, animata dall’amore e il bene comune.
Nella realtà socio-politica calabrese si nota la mancanza di una progettualità omogenea per uno sviluppo sostenibile ed integrale dell’uomo: il fatalismo, la rassegnazione, la frammentazione sono fondamentalmente “abdicazioni” al protagonismo dei cittadini. La Calabria , oggi, è come sospesa, consumando un passaggio da una cultura primaria, a misura d’uomo, verso l’incerto, l’indefinito.
Si evidenzia una diffusa sfiducia, ma anche un bisogno intenso di risposte, di senso.
Ma per aprire varchi, nuovi cammini, occorre passare da una cultura statica ad un nuovo dinamismo che porti ad un sussulto di socialità partecipata di tutti i soggetti sociali quali la famiglia, la scuola, la parrocchia, l’associazionismo, il volontariato e le istituzioni. Il passaggio dall’assistenzialismo passivo al protagonismo sinergico, dalla cultura dell’attesa inutile a quella dell’iniziativa possibile, può avvenire soltanto attraverso una maturazione ed interazione dei soggetti sociali.
La priorità della sfida educativa deve passare attraverso la famiglia, soggetto sociale per l’avvio di una sana e concreta politica, chiamata ad essere, secondo una felice intuizione di E. Mounier, “presente e desta, al crocevia della storia, per interiorizzare il pubblico e socializzare il privato”, offrendo educazione alla vita, apertura ai valori, senso della crescita.
Ma lo spazio più espressivo e, in un certo senso, più completo dove il cristiano si forma, si aggrega e si apre al mondo è la Parrocchia. La comunità cristiana ha come finalità l’evangelizzazione: essa ha il compito di testimoniare con le parole e con i gesti la sua fede nel Vangelo e di mostrare a tutti l’amore di Dio.
Ma l’annuncio del Vangelo non può essere dissociato dalla causa dell’uomo: per questo la promozione umana, la solidarietà, l’aiuto ai più poveri si sono sempre accompagnati all’evangelizzazione, nella consapevolezza che non si può proclamare che Dio ama l’uomo e poi non darsi da fare perché le condizioni concrete di esso siano dignitose, all’altezza dell’immagine con cui l’uomo è stato creato.
Ma l’annuncio del Vangelo non può essere dissociato dalla causa dell’uomo: per questo la promozione umana, la solidarietà, l’aiuto ai più poveri si sono sempre accompagnati all’evangelizzazione, nella consapevolezza che non si può proclamare che Dio ama l’uomo e poi non darsi da fare perché le condizioni concrete di esso siano dignitose, all’altezza dell’immagine con cui l’uomo è stato creato.
A cura di Beniamino Tramontana e Giamaica Puntillo
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